Il giorno che Vladimir Esposito dichiarò guerra a Mark Zuckerberg, e naturalmente la perse. O forse la vinse una volta per tutte

di Rosario Dello Iacovo

Terzigliano. Somewhere in time.

– Mi cancello da facebook. – Disse Vladimir. E con inconsueta risolutezza lo fece davvero. Era un giorno di maggio dell’anno di grazia 2012. L’otto, precisamente. Nel corso della stessa giornata cancellò il secondo account. Quello che aveva aperto per motivi che conoscevano solo in due. Era stato comunque un paracadute troppo esile. Non gli aveva impedito di precipitare al suolo. La frittata del resto l’aveva fatta prima. E puoi perderci tutto il tempo che vuoi con pezzi di guscio, tuorlo e albume: è difficile che ci tiri fuori un uovo. A meno che non cammini sulle acque, moltiplichi pani e pesci, dici a Lazzaro: “Alzati e cammina”. E quello veramente si alza. Zompetta allegro, lui, restituito alla vita di merda di tutti i giorni. Sarà convenuto a Lazzaro? Tanto, poi è morto lo stesso. L’unico uomo morto due volte. Tutti devono morire, ma almeno hanno l’onere di farlo una volta sola. Quando capita o quando lo scelgono. Come A., che un giorno d’aprile aveva preferito volare Altrove.

Fu una notte di follia, invece, quella in cui Bidone prese il sopravvento su Vladimir. Il quale, la mattina dopo se n’era bell’e che dimenticato. In realtà, non lo sapeva proprio. Lui preferiva ignorare le situazioni terribili nelle quali, suo malgrado, lo infilava il gemello cattivo di Terzigliano. Quando aveva aperto quell’account però lo ignorava. Anzi, si era sentito pervadere da un’irragionevole speranza. Per quanto la cosa fu vista con sospetto, da quegli occhi allungati e scuri. Bellissimi, sotto i capelli neri. Ne sentiva ancora l’odore e la consistenza. Poi attese qualche ora per il commiato finale dagli amici più stretti. Si fa per dire. Infine, poco dopo la mezzanotte e qualche messaggio sincero, nel quale ribadiva che lui ci sarebbe stato comunque, sempre, nei secoli dei secoli e Amen, bissò l’operazione senza esitare.

Il giorno dopo il suo blog passò dalla forbice compresa fra le cento e le seicento visualizzazioni quotidiane, a circa dieci. Il giorno dopo ancora scese a cinque. Poi non arrivò più nessuno. Se non qualche ospite casuale che cercava su google: “Come mettere il cazzo in culo a una tipa.” Ne fu soddisfatto, seppur turbato. L’invisibilità, in fondo, era quello che cercava. E gli sconosciuti erotomani che di tanto in tanto arrivavano a fargli compagnia, erano la giusta punizione per i suoi racconti sboccati, pieni di insulti e parole inutili. Perché scriveva così? Perché non avrebbe saputo farlo diversamente. Forse. Ma soprattutto: perché li scriveva? “Per sopravvivere”, si disse un giorno che la morsa allo stomaco allentò solo un po’ la presa, quando si sedette e iniziò a digitare lettere sulla tastiera.

A cosa serve avere quattromila amici, se poi il giorno dopo non ti arriva nemmeno una telefonata, un sms, una mail, un piccione viaggiatore, un segnale di fumo, un messaggio in alfabeto morse con lo specchietto che riflette i raggi del sole? Quattromila a zero è un risultato sufficientemente netto perché si possa invocare qualche generica attenuante. Qualche giustificazione pretestuosa. A cosa serve? Un minuto dopo che sei sparito è come se non fossi mai esistito. Fu questa la considerazione che confermò la bontà della sua teoria. Un mondo di donne e uomini soli, eppure ingordi di socialità fittizia. Si accontentano di simularla nella dimensione patologica e insensata dei social network. Gli sembrò di vederli, ora che ci rifletteva. A milioni, persi nella solitudine di una sedia e una tastiera. Molti ridevano davvero, quando digitavano la faccina corrispondente. Vi rendete conto? E a ricambiare quel sorriso, quella risata, un’altra persona sola, persa da qualche parte nei bit indefiniti dello spazio virtuale. Con la stessa faccina. Lo stesso sorriso inespressivo appena riflesso dalla superficie del monitor.

Non è meglio avere due amici veri che quattromila fantasmi?

C’erano ragioni personali dietro il suo gesto. Ne era consapevole. Sapeva che la normalità, che tutti i giorni accettiamo, perché altrimenti non la chiameremmo così, diventa talvolta intollerabile. Non li biasimava. Chi era lui per mettersi a giudicare? Bisogna sempre accertarsi che il pulpito sia all’altezza della predica. Il dolore che lo assaliva da quasi tre mesi, non aveva offuscato la sua lucidità di giudizio. Dove l’aveva conosciuta, se non sul fottuto facebook? Lì, aveva cominciato a parlarle. Certo, con quelle stesse frasi sintetiche e faccine che ora avevano il potere nefasto di inquietarlo.

Poi un crescendo: un caffè insieme, altri messaggi, un altro caffè.
Poi un giro in scooter con lei che si manteneva a distanza per impedire che i loro corpi si toccassero, e lui che approfittava delle curve e dei dossi per avvicinarsi, sfiorarla. Sentire il calore del suo. Un bacio, il primo, al piano superiore di un locale del centro antico, in una piazza che gli era sempre stata cara. Anzi, prima c’era stata un’altra serata in cui l’aveva tenuta in braccio e per mano, sempre al riparo delle poderose mura di Partenope. La greca, la filosofa, la sirena. La guerriera.
Poi si erano allontanati.

Una sera. Era trascorso circa un mese e mezzo. Correva l’anno 2011. Aprile, un venerdì. La ritrovò.

Un sms. Non voleva nemmeno leggerlo. Invece era lei. Mettendo le mani avanti, iniziò con una cosa che suonava più o meno come: “Non so se mi risponderai”. Lo sapeva che avrebbe risposto? Lui sì, non ebbe il minimo dubbio. Anzi, no, la chiamò. Iniziò così il viaggio. Il giro del mondo in trecento giorni. Il più bello che avesse fatto nella vita. Poi finì. Avevano concorso la differenza d’età e l’ostilità anche motivata che li aveva circondati già all’inizio. Ma loro avevano combattuto. Lei era stata eroica a sopportare le pressioni, dell’ambiente e di Vladimir. Voleva sempre di più, senza accorgersi che le stava chiedendo più di quello che era lecito domandarle. Ma un giorno in cui volle essere sicura che fossero davvero dalla stessa parte, entrò in gioco Bidone. Lei non lo sapeva: non c’era il suo Vladimir dall’altra parte della tastiera. Non avrebbe potuto. Fu giusto così. Le colpe si pagano e la responsabilità va assunta intera di fronte ai propri errori. Anche se a commetterli è il fratello gemello col quale hai convissuto da quando sei diventato un pezzo di merda.

Perciò se l’era assunta tutta, trasformandola in stimolo per disfarsi definitivamente di quell’uovo, al quale non aveva saputo restituire la sua forma originaria. Non avrebbe potuto, del resto. Solo fare luce dentro se stesso. Il primo passo fu assolvere lei da ogni colpa. Toccava a lui prenderla per mano e proteggerla dal dolore del mondo. Avrebbe dovuto essere più forte delle asprezze del percorso. Tenerla in braccio quando era stanca e disorientata. Dolcissima. Accarezzarla se il sonno tardava a venire. Senza stringerla nell’abbraccio morboso del possesso. Al quale, va detto, neanche lei si era sottratta. Ma lei era piccola, e la storia di Vladimir Esposito da Terzigliano non autorizzava larghe aperture di credito. La reputazione, di qualsiasi natura sia, ti precede prima che arrivi. Ne era consapevole. La chiarezza, dopo il dolore iniziale e l’abbandono, che ora dava gli eventi lo faceva sentire già un uomo migliore. Cancellarsi da facebook fu un modo per dirle che il fottuto Zuckerberg non era niente. Lei invece era tutto. Allontanarsi fu un gesto d’amore. Il segnale inequivocabile che lei era libera. Qualsiasi fosse stata la sua decisione, sarebbe stata la scelta di una donna giovane e libera. Con gli occhi allungati e scuri. Bellissimi, sotto i capelli neri. Dusty, I don’t wanna own you. Si era poi ritrovato a canticchiare, parafrasando una vecchia canzone, improvvisamente alleggerito dall’assenza di quel mondo caotico, nel quale ogni cosa era sotto gli occhi pettegoli dei corvi.

Anche gli inviti lo irritavano. Da tempo. E dire che aveva precluso quasi a tutti la possibilità di inviarglieli. “Cosa cazzo avete da festeggiare?”. Spontaneo chiederselo, osservando il tono estatico e gaudente con il quale li annunciavano. Qualcuno c’era sempre, comunque, a penetrare la cortina dietro la quale aveva provato invano a barricarsi. Ed erano sempre imperdibili, quegli eventi. Quando invece passiamo una vita intera a perdere persone delle quali davvero non sappiamo fare a meno. Il ricordo dei litigi perché quella gli aveva messo mi piace, lo fece finalmente sorridere. Non accadeva da tempo. E gli mancarono moltissimo i suoi modi da donna troppo adulta per la sua età, eppure così capricciosamente bambina, che gli aveva fatto dono della sua determinazione. Della disponibilità a combattere in una notte di maggio e per molto tempo ancora.

Era stato lui a perdere.
Era sua la colpa.

Ma l’araba fenice non insegna che dalle proprie ceneri si può rinascere?

Perciò, il giorno che Vladimir dichiarò guerra a facebook, Zuckerberg si illuse che facendo precipitare a zero i suoi lettori avesse vinto. In realtà, oggi lui ha ripreso a combattere. Non arrendersi è già una vittoria. E in culo ai mi piace, agli inviti, ai potresti conoscere, nei quali il giovane Zuckerberg pretende di far precipitare le nostre vite.

Vladimir c’è. Zuckerberg è carne morta che cammina.

12 commenti su “Il giorno che Vladimir Esposito dichiarò guerra a Mark Zuckerberg, e naturalmente la perse. O forse la vinse una volta per tutte

  1. in fondo Vladimir è vivo… mi piace, non mi piace più, taggato o non taggato… E’ VIVO, e questo è l’importante 🙂

  2. è da stamattina che apro e chiudo il blog, perchè sapevo che avresti scritto qualcosa…
    a presto vladi !!
    Marco

  3. Credo però , non ti avrei mai conosciuto se non fosse stato per face,non avrei mai letto i racconti meravigliosi di un bravissimo scrittore…sono arrivata appena in tempo…..nulla succede per caso….o forse si….

  4. non ho più facebook e in quanto a scrittore, è una parola grossa. scrivo per me e mi fa piacere se a qualcuno piace quello che scrivo, ma niente di più.

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