La morte è un dettaglio nello specchietto retrovisore

di Rosario Dello Iacovo

Autostrada del sole. Marzo 2001.

Guido come un diavolo nella notte e zac: mi faccio mezza penisola. Degli autovelox non me ne curo. Problemi del tipo a cui è intestata la macchina. Regola numero uno: quando c’hai i vizi te li devi poter permettere. E lui di vizi ce n’ha quanti ne vale questa 323 CI, sei cilindri, duemilacinque di cilindrata, con assetto ribassato. Un gioiello della tecnologia tedesca, che ora affetta in due la pianura padana a oltre duecento chilometri all’ora. Spingendo al minimo, col piede che accarezza leggero l’acceleratore e mantiene la velocità di crociera senza nessuno sforzo. Un buon affare, senza alcun dubbio. Non dal suo punto di vista, naturalmente. Il mio invece è il punto di vista di quello che dice: “Prendi prendi, che problema c’è? Ne vuoi ancora? Figurati”. Finché arriva il giorno che bussa alla tua porta e dei problemi ti presenta la lista completa. E la sua è lunga, credetemi. Un elenco di peccati che se li mettete in fila arrivate a Terzigliano prima di me, nonostante poggi le mie chiappe su questo missile dalla forma sinuosa e aerodinamica. Poi, nei prossimi giorni, il tipo farà il passaggio di proprietà, ma non in tempo per evitare che entro qualche mese gli arrivi a casa la collezione di fotografie. Se le può mettere in cornice sopra il camino insieme alle teste di cervo imbalsamate. Non mi creerebbe alcun imbarazzo. Ma pure arrotolarle e ficcarsele su per il culo. Sarebbe la stessa cosa, perché a quel punto non saranno più cazzi miei. Può farsene quello che vuole. Qualcosa devo pur dargliela in cambio a ‘sto coglione che in sei mesi si è pippato l’equivalente di una BMW da ululato senza nemmeno battere ciglio, ma limitandosi solo di volta in volta ad allargare un po’ di più la naserchia, o no? Oddio, l’equivalente è una mistificazione in termini strettamente economici, perché dovete considerare in prima battuta quanto la pago io, poi quanto la mischio e infine a quanto gliela vendo. Uno scambio ineguale, convengo, senza nemmeno un esercito d’occupazione straniero che lo abbia costretto a scambiare del buon petrolio con la democrazia farlocca delle multinazionali. È stata una sua scelta, quello che chiamano libero arbitrio. Per quanto di libero, una volta che metti le narici su questa merda, ti resti solo la possibilità di scegliere la banconota con la quale farti il pippotto. Perciò, arrivo all’Appennino senza l’ombra di un rimorso, con la coscienza pulita del moccioso che non ha neanche provato a mettere le mani di nascosto nel vasetto della nutella. L’ha semplicemente ricevuto in regalo da qualcuno che con ogni evidenza non sapeva cosa farsene, o non era in grado di apprezzarla a sufficienza. Io invece apprezzo con lo stesso animo innocente di quel bambino, mentre mi arrampico rapido fra abeti, faggi e ombre di animali notturni inseguite dalla scia dei fari.

Mi fermo poco dopo Firenze: piscio, caffè, benzina, quattro chiacchiere inutili sul tempo col benzinaio e di nuovo in corsa. Direzione sud. Supero Roma con le ruote che quasi non toccano terra sulle tre corsie della bretella autostradale. Un’ora e sarò a casa. Nove anni dopo. Fumo, ne avrò fumate venti. Le accendo una dopo l’altra e mi fanno compagnia. Il fumo più che un vizio è un’ossessione con la quale ho imparato a convivere. L’ossigeno che mi fa alzare dal letto ogni mattina. Ma ora questi piccoli fuochi caldi che bruciano nel buio della notte non hanno il potere di attenuare l’ansia, che resta attaccata alla gola e non molla la presa. Sto tornando a casa. Non riesco a crederci. A casa, per restare. È stata una decisione improvvisa, quando poche ore fa mi sono guardato allo specchio e ho visto un uomo in fuga. La consapevolezza non ha avuto bisogno di altre parole. Mi sono rivisto per anni a svegliarmi in un letto diverso tutte le mattine. Da solo o con donne che non hanno lasciato traccia. Nemmeno mi ricordo i volti, i nomi, gli accenti. Come la galleria di amici per la pelle di una sera. Solo per una qualche convenienza reciproca del momento. Niente che avesse anche solo vagamente la parvenza del calore umano. Era stato un nomadismo senza riferimenti. Un viaggio quotidiano in mare aperto, fra onde che spazzavano impietose il ponte della nave e secchiate di salsedine che bruciavano gli occhi. Qualunque destino sarebbe stato preferibile a quella odissea. E io non ero un Ulisse del cazzo. Sto tornando a casa, ma casa è una parola grossa, perché lì non ho più nessuno. E in quelle quattro mura chissà ora chi ci vive. Prima se n’era andata mia mamma, con un male incurabile che l’aveva ridotta pelle e ossa. Fui quasi sollevato quando chiuse gli occhi. Non riuscivo a credere che quel mucchietto striminzito di sangue e dolore rappreso un tempo fosse stata davvero mia madre. Poi toccò a mio padre. Ma ormai è passato tanto tempo e tutto appare così lontano, sfocato, al punto che a volte non sembra nemmeno che sia successo davvero. Soprattutto di notte, quando li sogno sulla spiaggia in un giorno d’estate dei primi anni settanta. Io ho i capelli lunghi e chiari. Le lentiggini mi costellano il piccolo naso e sono solo un bambino che costruisce castelli di sabbia. Allora non sapevo che il tempo me li avrebbe inculati tutti. Uno dopo l’altro. Perciò sorrido e chiedo a mio padre di raccontarmi un’altra storia. Poi gli dico che gli voglio bene e ci abbracciamo tutti e tre col vento che ci scompiglia i capelli.

Alle spalle mi lascio una prigionia dorata. Su e giù per il paese. Hotel di lusso al posto del sacco a pelo alle stazioni di Amsterdam e Milano, degli squat a Londra. Un mucchio di soldi in tasca. Sempre l’ultima parola sul lavoro. Era stato esaltante all’inizio. Dalle braccia di una tipa all’altra, come se la quantità fosse una cura contro il dolore. Non lo era stata, e al suo posto era subentrato un senso di stanchezza insopportabile. Volevo radici e continuavo a essere sbattuto qua e là dal vento della vita. Tornare a casa è stato poche ore fa un desiderio improvviso. Come una soluzione universale capace di lenire in un colpo solo ogni male. Una risposta finalmente diversa all’insonnia che è diventata la compagna abituale di tutte le mie notti. Giusto il tempo d’infilare confusamente vestiti, portatile e un paio d’altre cose in due borse e una valigia. L’incosistente bagaglio di nove anni della mia vita. Ma ora non sono più così sicuro di aver fatto la scelta giusta. Come sarà il mio quartiere? Ci sarà qualcuno dei vecchi amici? O il mio viaggio a ritroso nel tempo mi porterà fra gente sconosciuta, per la quale sarò nient’altro che un estraneo? Chi si ricorderà di Vladimir, il ragazzo di belle speranze sparito nel nulla in una notte di pioggia? Non è ancora tempo di risposte. Sto tornando a cercarle. E so che devo farlo a ogni costo. Abbasso il finestrino e l’aria fresca invade l’abitacolo. Respiro. Respiro. Due volte, io respiro. Prima piano, poi più a fondo, finché l’aria fredda della notte non mi satura i polmoni. Sull’altra corsia c’è un incidente: un paio di macchine accartocciate, e un tir finito di traverso. Luci di ambulanze e macchine sbirre. Qualcuno non tornerà a casa stanotte. Solo una corsa in ospedale per riconoscere un cadavere. “Non si preoccupi”, dirà al telefono la voce di uno sconosciuto. E invece la vita sarà già volata altrove. Insopportabile.

Tiro fuori dal cruscotto la custodia di un cd. Con i denti apro il contenitore del rullino fotografico, ma dentro ci sono solo pietre dure e bianche. Rallento da duecentoventi a centotrenta, metto giù una pietra e la sbriciolo con l’accendino. Faccio un mucchietto e lo aspiro senza pippotto, così, a piene narici, guidando con una mano sola. In un attimo la morte è solo un dettaglio nello specchietto retrovisore. I lampeggianti sfumano via via che mi allontano. Poi spariscono, e io dimentico tutto. Anche le mie promesse di farla finita con questa merda. Ma a casa sarà diverso. Smetterò con l’euforia indotta, pagata a caro prezzo il giorno dopo. Tutti, uno dopo l’altro. Tutta la vita. Ora però sto bene e non ho voglia di prediche. Nemmeno da me stesso. Schiaccio il pedale dell’acceleratore e torno sulla corsia di sorpasso. Il motore della Bmw esegue docile i miei comandi, e la macchina si incolla al suolo, quando supero una lunga fila di tir. Mi piace vederli incolonnati. Quante volte, nella nebbia, al nord, mi sono accodato e mi hanno fatto compagnia. Ma adesso il cielo è limpido e la luna sembra quasi un sole. Perciò stanotte non mi sento solo mentre corro verso casa. A guardare il passato negli occhi. Nove anni dopo. Finalmente non ho più paura. E lancio il contenitore di plastica nera più lontano che posso.

6 commenti su “La morte è un dettaglio nello specchietto retrovisore

  1. “Gli uomini sanno delle stelle che non sono le stesse.Per gli uni,quelli che viaggiano,
    le stelle sono delle guide.Per altri non sono che delle piccole luci…
    Ma tutte quelle stelle stanno zitte.Tu avrai delle stelle come nessuno ha…
    Quando tu guarderai il cielo,la notte,visto che io abiterò in una di esse,visto che io riderò in una di esse,allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero.
    Tu,avrai,tu solo,delle stelle che sanno ridere!E quando ti sarai consolato(ci si consola sempre),
    sarai contento di avermi conosciuto.Sarai sempre il mio amico.Avrai voglia di ridere con me.
    E aprirai a volte la finestra ,così per il piacere….E i tuoi amici saranno stupiti di vederti ridere Guardando il cielo.Allora tu dirai: Si,,le stelle mi fanno sempre ridere!e ti crederanno pazzo.”

    Il Piccolo Principe

  2. Molto bello questo ros…
    Mi piacerebbe aver fatto la vita che hai fatto te…
    mi piacerebbe andar via e tornare dopo 9 anni…

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