Chissà cosa sono diventati

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di Rosario Dello Iacovo

Successe una mattina. Così, di colpo. Si guardò allo specchio e decise di andarsene. Non sapeva dove, non ne aveva idea. Sapeva solo di doverlo fare, perché sarebbe morto se fosse rimasto. Di questo era sicuro, e la consapevolezza lo atterrì. Doveva partire, abbandonare le strade di una città che ormai avvertiva come inospitale e nella quale non aveva più motivi per restare. Doveva lasciarsi alle spalle le macerie di una vita vissuta disordinatamente, in bilico perenne fra l’estasi e la noia. La rincorsa del successo a ogni costo, qualsiasi cosa facesse. L’incapacità cronica di accettare le sconfitte.

“Una vita vissuta al di sopra delle mie possibilità”, si sorprese a pensare mentre riponeva con foga i vestiti nella valigia. Aveva voluto più di quello che sarebbe stato lecito desiderare, e lo aveva sempre ottenuto. Era bravo, ci sapeva fare, aveva detto una sua vecchia fiamma parlando di lui ad un’amica. Ma era stato altrettanto bravo a perdere quello che aveva conquistato. Sempre. Era la sua maledizione. Raggiunto l’obiettivo si rilassava e commetteva gli stessi errori. Le cattive abitudini erano nel suo caso come l’omologa erba, dure a morire. Altre volte invece si buttava proprio nella direzione sbagliata fin dall’inizio. Erano i casi più pericolosi, quelli che per passione o sfida con se stesso lo conducevano inevitabilmente al fallimento. Senza che in certi casi avesse particolari colpe, se non quella iniziale: una sorta di peccato originale. Si era fatto male mille volte, le discese ardite e le risalite, le chiamava citando una canzone di Battisti. E mille volte si era rimesso in piedi accettando una nuova sfida.

Un incosciente, diceva di se stesso con un certo orgoglio, volendo intendere che solo le passioni vere non temono la caduta. Quella volta però la frase gli suonò vuota, priva di senso. Nemmeno il gusto per le acrobazie senza rete e le imprese impossibili fu consolatorio. Aveva lottato, aveva perso e quando era finito col culo al tappeto, si era rialzato a fatica come un pugile sotto i colpi assassini di un picchiatore. Per giorni si era chiesto se ci fosse una breccia nel muro. Un buco anche microscopico nel quale infilare la forza delle sue argomentazioni. Ma non c’era stato nulla da fare. Dentro, aveva per la prima volta nella sua vita la serena consapevolezza di una scelta dovuta. Addirittura troppo facile per non essere vera. Anche se di facile in quella sfida non c’era stato niente, per nessuno dei contendenti. Una guerra continua contro un mondo rivelatosi ostile, nemico, in trincea, pronto a usare tutte le armi, perché il lieto fine restasse confinato alla fine di un romanzo rosa, che non era diventato una pagina di vita vissuta. Fu questa la più amara delle riflessioni.

Quella polo che si ritrovò fra le mani gli fece pensare ai giorni in cui era stato felice. Ce n’erano stati. Anche quel giubbotto. Li rimise nell’armadio. Adesso c’è solo il futuro, provò a dirsi senza convinzione, ma con la certezza che avrebbe dovuto guardare la luce che penetrava dall’alto, indicandogli la via di fuga. E avrebbe nuotato, con le braccia larghe, i piedi che spingevano frenetici. E una volta fuori, avrebbe finalmente respirato a pieni polmoni. Come da bambino, dopo una corsa dietro un pallone. Ripensò a quei momenti con un sorriso, chiedendosi dove fossero finiti gli altri, dove li aveva portati la vita, cosa erano diventati. Lui non lo sapeva cos’era. Certo: nervi e muscoli, carne e sangue, rabbia e desiderio represso. Ma poi cos’altro?

Pensandoci, senza trovare risposta, spense il computer sulla scrivania. Poi infilò il portatile nello zaino, dopo aver svuotato la memoria di tutto il suo contenuto. Avrebbe avuto altre pagine da scrivere, forse volti ancora sconosciuti sarebbero poi divenuti familiari. Avrebbe scritto solo per se stesso, per placare la voglia di violenza cieca che da qualche tempo faceva sempre più fatica a contenere. E se un giorno gli fosse venuta voglia di far leggere quelle storie a qualcuno, quello sarebbe stato il segnale che era guarito. Poi prese i bagagli, buttò via le poche cose rimaste nel frigo, staccò la luce, chiuse l’acqua, abbassò le tapparelle. E l’ultima cadde rumorosamente al suolo, facendo piombare la casa nel buio.

Ora vive a Londra, fa il commesso in un supermercato, ha smesso con i lavori strani e le ambizioni fuori portata. Frequenta una scuola per perfezionare l’inglese. Nelle giornate di pioggia così sottile da sembrare polvere in controluce, passeggia sulle rive del Tamigi. Ogni tanto si ferma e accende una sigaretta. Poi guarda il fiume che si spinge veloce verso il mare, e gli vengono in mente dei bambini che corrono dietro ad un pallone.

Chissà loro cosa sono diventati.

2 commenti su “Chissà cosa sono diventati

  1. “E se un giorno gli fosse venuta voglia di far leggere quelle storie a qualcuno, sarebbe stato il segnale che era guarito….”

    oppure sarebbe stato il segnale che cercava conferme, che la confusione che provava lui la provano in tanti e ciò provoca un sottile piacere in coerenza con il consolidato principio”mal comune mezzo gaudio……”scusa mi è venuta così, come per dire che ogni cosa può essere letta in mille modi diversi

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